Di seguito meditazioni sulle letture delle domeniche del tempo Pasquale

II domenica di Pasqua 11/14/2021

II DOMENICA DI PASQUA

Seconda Lettura

“Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio; e chiunque ama colui che ha generato, ama anche chi è stato da lui generato. Da questo sappiamo che amiamo i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti. Perché questo è l’amore di Dio: che osserviamo i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi. Poiché tutto quello che è nato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. Chi è che vince il mondo, se non colui che crede che Gesù è il Figlio di Dio. Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, cioè Gesù Cristo; non con acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che ne rende testimonianza, perché lo Spirito è la verità”.

(1Gv. 5, 1-6)

TUTTO CIO’ CHE È NATO DA DIO VINCE IL MONDO

Questa domenica, la seconda di Pasqua, è detta anche “in Albis” perché, usciti dal fonte battesimale, i neofiti ricevevano una veste bianca simbolo degli effetti del battesimo nelle loro anime: “tutti voi che siete stati battezzati siete rivestiti di Gesù Cristo”. Essi conservavano questa tunica fino al sabato dopo la Pasqua che porta il nome di “sabato in cui si depongono le tuniche bianche”, poiché, riuniti a S. Giovanni in Laterano, si toglieva loro la veste battesimale. In queste Domeniche del Tempo di Pasqua la prima e la seconda lettura sono tratte dal Nuovo Testamento (dagli Atti degli Apostoli e dalle Lettere degli Apostoli) e nel ciclo liturgico B nella seconda lettura del Tempo di Pasqua la Liturgia propone la Prima Lettera di Giovanni. L’autore della lettera non dichiara mai il proprio nome, ma la tradizione antica e i contenuti della lettera ci orientano verso Giovanni apostolo ed evangelista. Sono forti infatti le somiglianze con il IV vangelo. La lettera sarebbe stata scritta poco dopo il vangelo di Giovanni ed era destinata alle comunità dell’Asia Minore, in particolare a quella di Efeso. Nella lettera si parla soprattutto di Dio. Dio è luce, è giusto, è amore; da queste caratteristiche derivano i dettami riguardanti la vita concreta: occorre evitare il peccato, vivere la retta fede, praticare il comandamento dell’amore. La nostra lettura comincia da un brano dell’ultimo capitolo, il gran finale, che indica in modo esplicito i temi fondamentali di tutta la lettera. Giovanni ci ricorda che chi ama veramente Dio ama anche i figli di Dio. L’amore di Dio si realizza attraverso l’amore del prossimo. Non ci può essere vittoria sul male (cioè sul mondo) ed amore di Dio senza il riconoscimento del suo figlio fatto uomo e senza l’accettazione dei suoi comandamenti. Il cristiano, che è nato da Dio, vince il mondo, e cioè il male, per mezzo della fede in Gesù vittorioso. Proprio per questa fede i comandamenti non sono più così gravosi come lo erano sotto la legge ebraica, perché Gesù ci ha fatto scoprire il vero volto di Dio, il suo amore, e ci ha dimostrato che l’obbedienza alle sue leggi, oltre ad essere possibile, realizza la promessa della vita eterna. Non dobbiamo pregare Gesù di starci vicino perché lui è sempre al nostro fianco, dobbiamo invece pregarlo di aiutarci a non allontanarci noi da lui. La parola di Dio oggi ci interpella in riferimento alla nostra vita. Chi crede nel Risorto deve vivere nella speranza che fa saltare gli orizzonti di questo mondo. La fede in Cristo ci fa liberi dalle paure della morte, dall’arrivismo, dalla lotta per la sopravvivenza perché ci fa vittoriosi sul mondo, ci fa pienamente ed autenticamente padroni del mondo e della storia. Essere veri credenti significa vivere da padroni della nostra vita sapendo che la libertà che ci fa tali viene dal credere nel Cristo. Il criterio di autenticità dell’amore per Dio è accogliere la sua volontà che si esprime concretamente nell’impegno fraterno. Lo Spirito con la sua testimonianza manifesta al credente la verità, cioè, nel vocabolario giovanneo, la portata salvifica degli eventi evocati. Dio ci ha amati per primo. L’amore fraterno è una risposta all’iniziativa di Dio. Non è l’uomo che ha conquistato Dio con il suo amore; è Dio che, per primo, conquistò l’uomo con il suo amore che gli mostrò nel fatto storico di Cristo. C hi non ama il prossimo che vede, non può amare Dio che non vede. Cristo unì infatti intimamente i due comandamenti: il secondo è simile al primo. Chi confessa la fede in Cristo deve amare i fratelli proprio perché, per mezzo della fede, si crea la grande famiglia dei figli di Dio. Gli effetti dell’incarnazione sono, infatti, quelli di introdurci nella grande famiglia dei figli di Dio. I comandamenti non sono pesanti perché la legge dell’amore li allevia. Gesù Cristo è venuto con acqua e sangue; l’acqua simboleggia qui il battesimo, il rito che rende cristiani; il sangue fa pensare alla morte sacrificale di Cristo considerata non come un avvenimento passato ma attualizzata dai cristiani nell’eucaristia.  Lo Spirito continua a dare la sua testimonianza nella Chiesa dopo la dipartita di Gesù.

Don Claudio Doglio

Meditiamo:

  • Mi sono mai sentito in famiglia con Dio Padre e il Figlio? In quali occasioni?
  • In cosa mi sembrano gravosi i comandamenti di Dio?
  • In quali situazioni la mia fede ha vinto il mondo?
III domenica di Pasqua 18/14/021

III Domenica di Pasqua

“In quel tempo, i due discepoli che erano ritornati da Emmaus, narravano agli Undici e a quelli che erano con loro, ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto Gesù nello spezzare il pane. Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni”.

Lc. 24, 35-48

Le strade per incontrare il Risorto.

Sono giorni difficili per i discepoli. Giorni impastati di paura, dubbio e il Risorto si fa nuovamente presente in mezzo a loro. E come reagiscono? Ancora una volta sono sconvolti e pieni di paura. Per loro è un fantasma (la traduzione non è “fantasma”, ma “spirito”). Quanto li sentiamo vicini questi discepoli impauriti! Quanta fatica facciamo anche noi a riconoscere il Risorto presente nella nostra vita! Eppure Dio non si stanca e continua a venire, apposta per noi. Davanti all’incredulità, Gesù insiste: “Sono proprio io!” (letteralmente dice “Io sono”, il nome di Dio). A dire che la morte non ha interrotto la sua esistenza, ma fa manifestare nella pienezza la sua condizione divina. Gesù dice: “Toccatemi, guardate le mie mani, i miei piedi”. Avrebbe potuto operare un miracolo strabiliante, invece no! Non smette di stupirci. Il Risorto, invita a toccare e guardare i segni della passione. Quello è il tratto distintivo della sua presenza. È proprio il legame della Croce con la Resurrezione che ci dice lo specifico dell’annuncio della Pasqua. La “buona notizia” non è solo che un morto è ritornato in vita, ma che il Figlio di Dio che ha donato la vita per amore sulla Croce, ha sconfitto la morte e che il suo amore ha fatto esplodere di vita il sepolcro! E per farne esperienza abbiamo bisogno di toccare con le mani e vedere con il cuore. Non basta che gli altri mi raccontino. Sapete perché molta gente dubita? Perché non ne ha fatto esperienza, perché non l’ha incontrato, non l’ha toccato, non si è lasciata coinvolgere. La fede è un incontro, altrimenti rimane un’ipotesi, un dubbio. Ma come in un’esperienza di amore, la fede è un cammino, che va avanti per gradi. Noi siamo figli del “tutto e subito” ma tutto è graduale nello spirito perché tutto è graduale nell’amore. La perseveranza, la gradualità in amore dice quanto vogliamo una cosa (quanto cioè siamo motivati) e ci permette di gustare giorno per giorno ogni passaggio, ogni situazione. Per un’intera vita cerchiamo certezze, e quando il Signore ce ne dà una noi reagiamo con la paura. Siamo così abituati alle cose negative che quando ci succedono quelle positive ci domandiamo immediatamente quanto poco durerà. Quando siamo troppo felici possiamo pensare che tutto sia “troppo bello per essere vero” e che prima o poi verrà fuori una fregatura nascosta. È triste ma vero. Quando godiamo una vita felice e ci capita qualcosa di spiacevole la prima reazione è: “dovevo aspettarmelo, non poteva andarmi tutto bene!”.

Non siamo abituati alla Pasqua. Siamo allenati al venerdì Santo, ci sentiamo più a nostro agio davanti al Crocifisso che davanti al sepolcro vuoto. Siamo più in sintonia con la Sua sofferenza che con la Sua vittoria. Eppure siamo cristiani in virtù proprio di questa vittoria. Amici, dobbiamo lasciarci convertire da questa vittoria!

 Luca descrive tre strade per arrivare ad incontrare il Risorto:

-La prima è l’incontro con le proprie ferite. Gesù per farsi credere chiede di guardare dentro le sue ferite. Dovremmo for trovare il coraggio anche noi di fare la stessa cosa. Guardare nelle nostre debolezze ci farà scoprire la potenza nascosta e imprevedibile della Pasqua. Dio agisce proprio nella nostra debolezza. Noi facciamo difficoltà ad incontrare il Risorto nella nostra vita perché pensiamo che se ci fosse noi non saremmo così deboli, feriti. Se guardassimo al fondo delle nostre debolezze e delle nostre ferite ci accorgeremmo che Dio è proprio lì, e lì vorrebbe essere riconosciuto e accolto.

-La seconda strada è l’amicizia. Gesù mangia con gli apostoli. Gesù amava stare a tavola, perché a tavola si creano legami di amicizia, di confidenza, di intimità fra le persone. Sentiamo vivo il Risorto quando riusciamo ad aprirci e ad aprire il nostro cuore.

-La terza strada è la comprensione delle Scritture. Abbiamo bisogno di comprendere la nostra storia, di comprendere il filo rosso che lega i nostri giorni, perché allora troviamo un significato e quando si ha un senso per vivere possiamo affrontare qualunque situazione. Ma Gesù aprì loro la mente per comprendere le Scritture (la Legge, i Profeti e i Salmi). Noi abbiamo bisogno di comprendere il vangelo e la Bibbia. C’è molta ignoranza a riguardo. S. Girolamo diceva: “L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”. Fino al concilio vaticano II non si poteva neppure leggerle!

Oggi c’è ancora chi crede all’esistenza storica di Adamo ed Eva, di Caino e di Abele o dei patriarchi così com’è scritto nella Bibbia. C’è chi crede che il vangelo sia la telecronaca di quanto Gesù ha detto e fatto, come se ci fosse stato un giornalista che ne abbia riportato puntualmente ciò che avveniva. Abbiamo bisogno di comprendere, di capire, di andare in cerca della verità. Ma perché questo venga capito, scrive Luca, occorre aprire la mente. Una mente chiusa non può comprendere questa novità. Cosa vuol dire questo? La scrittura va interpretata con lo stesso spirito che l’ha ispirata. E qual è lo spirito? L’amore di Dio per le sue creature. Non dobbiamo temere di scandalizzare qualcuno perché dove c’è buio, ignoranza, lì non si può costruire nulla. Per annunciare il Risorto, abbiamo bisogno che la Parola illumini la nostra intelligenza. Abbiamo il dovere di leggere la Bibbia, approfondirla, pregarla. Altrimenti cosa annunciamo? Tornare al vangelo è fare esperienza del Risorto, perché il Gesù dei vangeli ti riscalda il cuore, ti infiamma l’anima, ti appassiona perché il vangelo non è un libro da leggere ma una persona da incontrare e da far entrare dentro di te. Ma poi c’è la missione. Il Risorto, aprendo le menti dei discepoli all’intelligenza delle scritture dice: “Il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati”. Bellissimo: l’annuncio, per un cristiano, non è un dettaglio! La nostra non è una fede intimistica come altre religioni orientali. La missione è parte integrante della salvezza. Il Risorto invita anche noi ad annunciare che Lui è vivo e che siamo discepoli di un Dio innamorato e non sudditi di un Dio castigatore. Siamo chiamati ad essere trasparenza di Dio. In ufficio, a scuola, per strada, al mercato, abbiamo questa “bella notizia” da condividere. Questo non è un optional della fede, ma una delle sue caratteristiche fondamentali. Come possiamo, come siamo capaci, non lasciamoci sfuggire nessuna occasione, a volte basta solo un sorriso perché l’altro possa incontrare Dio.

La bella notizia di questa domenica? In ciò che sembra un fallimento, una ferita, possiamo trovare i segni più convincenti della verità della Pasqua.                                                                                                                                                Paolo de Martino

IV domenica di Pasqua 25/04/2021

IV DOMENICA DI PASQUA

Vangelo Gv.10, 11-18

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Gesù il pastore buono che dà la vita, che contagia d’amore

di padre Ermes Ronchi

Pastore buono: è il titolo più disarmato e disarmante che Gesù abbia dato a se stesso. Eppure questa immagine non ha in sé nulla di debole o remissivo: è il pastore forte che si erge contro i lupi, che ha il coraggio di non fuggire; il pastore bello nel suo impeto generoso; il pastore vero che si frappone fra ciò che dà la vita e ciò che procura morte al suo gregge. Il pastore buono che nella visione del profeta «porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri» (Isaia 40,11), evoca anche una dimensione tenera e materna che, unita alla fortezza, compone quella che papa Francesco chiama con un magnifico ossimoro, una «combattiva tenerezza» (Evangelii gaudium 88).

Che cosa ha rivelato Gesù ai suoi? Non una dottrina, ma il racconto della tenerezza ostinata e mai arresa di Dio. Nel fazzoletto di terra che abitiamo, anche noi siamo chiamati a diventare il racconto della tenerezza di Dio. Della sua combattiva tenerezza. Qual è il comportamento, il gesto che caratterizza questo pastore secondo il cuore di Dio? Il Vangelo di oggi lo sottolinea per cinque volte, racchiudendolo in queste parole: il pastore dà la vita. Qui affiora il filo d’oro che lega insieme tutta intera l’opera ininterrotta di Dio nei confronti di ogni creatura: il suo lavoro è da sempre e per sempre trasmettere vita, «far vivere e santificare l’universo».

Dare la vita non è, innanzitutto o solamente, morire sulla croce, perché se il Pastore muore le pecore sono abbandonate e il lupo rapisce, uccide, vince.
Dare la vita è l’opera generativa di Dio, un Dio inteso al modo delle madri, uno che nel suo intimo non è autoreferenzialità, ma generazione.

Un Dio compreso nel senso della vite che dà linfa ai tralci; del seno di donna che offre vita al piccolo; dell’acqua che dà vita alla steppa arida. Io offro la mia vita significa: vi offro una energia di nascita dall’alto; offro germi di divinità, per farvi simili a me (noi saremo simili a Lui, 1 Gv.3,2 nella II Lettura).
Solo con un supplemento di vita, la sua, potremo battere coloro che amano la morte, i tanti lupi di oggi. Perché anche noi, discepoli che vogliono, come lui, sperare ed edificare, dare vita e liberare, siamo chiamati ad assumere il ruolo di “pastore buono”, cioè forte e bello, combattivo e tenero, del gregge che ci è consegnato: la famiglia, gli amici, quanti contano su di noi e di noi si fidano.
“Dare vita” significa contagiare di amore, libertà e coraggio chi avvicini, di vitalità ed energia chi incontri. Significa trasmettere le cose che ti fanno vivere, che fanno lieta, generosa e forte la tua vita, bella la tua fede, contagiosi i motivi della tua gioia.

V domenica di Pasqua 2/05/2021

V Domenica di Pasqua

I Lettura (At 9,26-31)

In quei giorni, Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo.
Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore. Parlava e discuteva con quelli di lingua greca, ma questi tentavano di ucciderlo. Quando vennero a saperlo, i fratelli lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso.
La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero.

II Lettura (1Gv 3,18-24)

Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità.
In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa.
Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito.
Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.

Vangelo (Gv.15,1-8)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da sé stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”

Meditazione di Padre Paolo Berti

La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria”, ci dicono gli Atti degli Apostoli. La persecuzione che Paolo aveva lanciato contro i cristiani era finita; e lui – il persecutore – era passato a Cristo e per di più aveva sostenuto a sua volta la persecuzione, prima dai Giudei di Damasco e poi dagli Ebrei di lingua greca a Gerusalemme. Perseguitato sia come cristiano, sia come traditore della religione giudaica. In tale situazione la Chiesa: “Si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero”. Non c’era spensieratezza, baldoria, euforia, ma la Chiesa “cresceva e camminava nel timore del Signore”. Cioè viveva il Vangelo, era nella carità, che è Cristo. Un quadro che Luca, l’autore degli Atti, ci tiene a presentare come risultato delle prove sostenute. Le comunità cristiane ferventi possiedono sempre la pace del cuore, ma spesso sono sottoposte ad urti, ad ostacoli, che tendono a fiaccarle, a scompaginarle. Ma di fronte all’inverno delle prove mantengono sempre un tratto primaverile. “Cresceva e camminava”; cioè si sviluppava come numero, come forza di compattezza, e camminava, cioè non si adagiava sull’esistente, ma seguiva il Signore, lo serviva, animata dalla fiamma apostolica dello Spirito Santo. Luca, ancora, presenterà questo tratto primaverile della Chiesa anche durante una persecuzione (At 12,24): “Intanto la parola di Dio cresceva e si diffondeva”. La comunità cresce mentre cresce la sua comprensione della Parola di Dio, e questa crescita della comprensione si attua non nella staticità, ma nel dinamismo della diffusione della Parola. La Parola di Dio può essere compresa se la si fa diventare concretamente vita, proprio perché essa è Parola di vita, che non può essere compresa là dove c’è morte. Il che vuol dire che uno studio della Parola, che si limitasse all’indagine scientifica, cioè allo studio della lingua, dell’etimologia, dei contesti ambientali nei quali venne pronunciata, dei generi letterari – che vanno presentati onestamente e non per scalzare la Parola, ma, appunto, per vederne meglio la verità trasmessa -, produrrebbe solo nebbie e gelo. Luca ci dice che la Parola cresceva; cioè cresceva la sua comprensione e quindi la capacità di diffusione presso le comunità e i singoli.
Crescere, camminare, diffondere, sono tre realtà vissute dai singoli e dalle varie comunità dell’unica Chiesa in virtù della loro adesione a Cristo.

Continua a Leggere…

Gesù ci presenta l’immagine della vite e dei tralci; un’immagine che egli ci spiega: lui è la vera vite, noi i tralci che devono portare frutto. Gesù si definisce la vera vite, quella che dà frutti di bontà, ma che ha bisogno che i tralci, che siamo noi, siano ben uniti ad essa per ricevere linfa. E non basta, bisogna pure che i tralci accettino le potature dell’agricoltore celeste. Nessuna paura, le potature del Padre celeste sono tutte ben fatte. Egli è un agricoltore perfetto. Sono potature non per mutilare, ma per far sì che il tralcio non disperda la forza che gli viene dal tronco producendo solo legno; affinché, ben potato, giunga a produrre abbondante frutto. È noto a tutti, infatti, che se i tralci non vengono potati l’uva prodotta ha grappoli e acini piccoli. Bisogna dunque che l’agricoltore poti. Ma, dicevo, niente paure le potature del Padre sono sapienti; dobbiamo perciò accettarle. Cosa pota l’agricoltore celeste? Pota la ricerca di utili terreni; pota l’attaccamento alle comodità; pota la voglia di comparire; pota l’attaccamento al senso. Come fa? Innanzitutto, ci aiuta con la sua grazia a vincere le nostre inclinazioni verso gli utili terreni e il senso. Poi ricorre a situazioni esterne. Ad esempio, uno che si inorgoglisce non riconoscendo i benefici ricevuti da Dio, si trova di fronte ad un bel fiasco economico, perché Dio non l’assiste più nel suo lavoro, così che è invitato a rientrare in sé stesso. Un altro, che fa l’intelligentone, il “so tutto io”, si trova di fronte ad uno culturalmente inferiore a lui, ma che aiutato da Dio, poiché umile, gli fa fronte e magari lo vince. Dio provoca dunque queste situazioni; pota positivamente. Ma sui tralci si abbattono anche tentativi di tagli, di stroncature; sono quelli del mondo, sono quelli che il Padre permette, si noti permette. Anche questi tagli, non fatti sapientemente come quelli del Padre, che portano l’anima all’umiltà, alla mansuetudine, ma fatti con rabbia, fatti per ferire, per svellere, per dissennare, non fanno che favorire frutti abbondanti nei tralci che rimangono uniti alla vite. Tralci che formano una sola cosa con la Vite. La Vite li tiene uniti a sé, li rende parte di sé, comunica la linfa che ha in sé; l’unica realtà che li può separare dalla Vite è un loro disgraziatissimo no, che li rende rami secchi, destinati al fuoco eterno.
Gesù è la vera vite. La vera, perché gli uomini tendono a diventare tralci di viti che avvelenano, tralci di uomini che trasmettono morte. Quanti in Israele avevano eletto per propria vite un Rabbi e non crescevano, non producevano che frutti striminziti, acerbi, immangiabili, che allegavano i denti (Ez.18,2), quando non erano addirittura velenosi.
Gesù è la vera vite; come Gesù è la vera luce (Gv.1,9), il vero pane (Gv.6,32), la vera ricchezza (Lc 16,11). La Chiesa vive di Gesù e da Lui riceve la linfa dello Spirito Santo. Così lo Spirito del Capo è anche, per donazione, lo Spirito del Corpo. Gli Atti ci presentano il dolce conforto dello Spirito Santo: “La Chiesa era dunque in pace, con il conforto dello Spirito Santo”. Conforto perché lo Spirito Santo tiene la Chiesa unita a Gesù; la illumina con la conoscenza di Gesù (Gv.16,13); la fortifica nel seguire Gesù, nel servire Gesù. Il risultato è l’intima unione con Gesù, l’intima conoscenza di lui: questa è la consolazione data dallo Spirito Santo, la conoscenza che la Sposa ha dello Sposo, la conoscenza che ha la discepola del Maestro, la conoscenza che l’Amica ha dell’Amico (Ct.5,2).
Giovanni, il teologo dell’amore, dell’unione tra Cristo e la Chiesa, sigilla con le sue parole il nostro cuore a Cristo. Ci dà i termini coi quali riconosciamo di essere in Cristo. Giovanni ha davanti a sé tanti che si dicono di Cristo, che dicono di conoscerlo, ma non lo conoscono, non sono suoi. Sono gli anticristi, e più in generale sono coloro che hanno una parvenza di carità, ma è solo calore umano a cui manca la forza soprannaturale della carità riversata nel cuore dei credenti dallo Spirito Santo (Rm.5,5). Essi non credono in Cristo se non in modo astratto, per ragionamento, e non per intima unione di fede viva. Giovanni ci dice che dobbiamo amare non a parole, non con l’abilità linguistica, ma “con i fatti e nella verità”. Credere in Dio nel nome di Gesù Cristo, è amare, perché Gesù è il testimone perfetto dell’Amore. Credere nel nome, cioè nell’identità, nell’essere, di Gesù, è amare; ed è amare anche i fratelli: “Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri”. L’amore reciproco è il sigillo dell’unità dei fratelli in Cristo, dei figli di Dio. In una comunità la regola è l’amore reciproco. Ma, attenzione, l’amore non si blocca in assenza della reciprocità, esso continua anche quando non si è amati, non si è compresi. È qui che l’amore raggiunge le sue vette e diventa fecondo di rinnovati innalzamenti di fervore. L’amore non si ferma mai. Mai anche di fronte all’ingiustizia, anche quando si deve ricorrere alla tutela dei propri diritti presso le autorità competenti. Mai, anche quando le autorità addette all’esercizio della giustizia ti fanno ingiustizia. Anche allora la carità non si ferma, ma cresce, cammina in una sempre maggiore perfezione.
Giovanni ci invita ad ascoltare il nostro cuore, che è puro se crede in Cristo vitalmente. Se il cuore non ci rimprovera nulla, allora questo è segno che abbiamo fiducia in Dio. Infatti, se ci dichiarassimo autosufficienti saremmo dei superbi e non avremmo allora fiducia in Dio. Il cuore urla di fronte alla superbia, perché la superbia lo avvelena facendolo morire sempre di più ad ogni voce d’amore. La fiducia in Dio è garanzia di essere esauditi nella preghiera, ma la fiducia in Dio senza l’obbedienza ai suoi comandamenti e alle ispirazioni che ci invia, è semplicemente un vuoto d’amore, perché l’obbedienza è la vittoria sulla superbia, sulla pretesa di essere autosufficienti sia nell’intelletto sia nella volontà. E l’autosufficienza scarta il disegno di Dio, l’obbedienza ai comandamenti di Dio, alle ispirazioni di Dio, obbedendo alle proprie prospettive fino alla testardaggine. Solo accogliendo il disegno di Dio, che è Cristo, l’uomo si salva, e si salva perché ama in Cristo. Ave Maria, sigillo dei cuori che vogliono vivere sigillati in Cristo, per essere veri adoratori del Padre, e viva carità verso tutti. Amen. Vieni, Signore Gesù.

VI domenica di Pasqua 9/05/2021

VI Domenica di Pasqua

I Lettura (At 10,25-27.34-34.44-48)

Avvenne che, mentre Pietro stava per entrare [nella casa di Cornelio], questi gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Àlzati: anche io sono un uomo!».
Poi prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga».
Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio.
Allora Pietro disse: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?». E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni.

Salmo (97)

Rit. Il Signore ha rivelato ai popoli la sua giustizia

Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo.

Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa d’Israele.

Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni!

II Lettura (1Gv 4,7-10)

Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.
In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui.
In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati

Vangelo (Gv.14,23)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri»

Meditazione di Mons. Pizzaballa

Continua oggi la lettura del capitolo XV del Vangelo di Giovanni, che abbiamo iniziato domenica scorsa.

Gesù descrive la relazione che intercorre tra Lui e i discepoli come una relazione di amore: il termine amore, in questi pochi versetti, ricorre nove volte.

Accanto al termine amore ne troviamo un altro, ugualmente importante, che Gesù applica ai suoi, ed è il termine “amici”: per dire chi sono i discepoli per Gesù, come Lui li “sente”, Lui usa questo termine: li chiama “amici” (Gv.15,15).

Cosa significa per Gesù amare, cosa significa essere amici?

Innanzitutto per Gesù amare significa rimanere gli uni negli altri. Amarsi non è un incontrarsi saltuariamente, non è neppure essere presenti gli uni gli altri rimanendo esterni, estranei, ognuno con la propria vita. Amarsi per Gesù ha questa intensità, questo spessore, per cui l’altro ti entra dentro e fa parte di te: non sempre la relazione è facile, e spesso ci si scontra, non ci si capisce, ci si delude. Ma l’altro rimane parte della tua vita, per cui non ne puoi più fare a meno, non lo puoi più abbandonare. Ed è reciproco.

Questa è la relazione tra Gesù e il Padre, il loro essere una cosa sola, il loro avere tutto in comune: per questo Gesù può dire di amare il Padre e di osservare i suoi comandamenti (Gv.15,10).

Ma questo è anche ciò che Gesù ha vissuto con noi, ci ha amati così, non potendo fare a meno di noi, perché gli siamo entrati dentro e non vive più senza di noi. Gesù chiede ai suoi di rimanere in questo amore, cioè innanzitutto di lasciarci amare così.

Per noi l’esperienza del rimanere risulta alquanto problematica: nella nostra fragilità umana, ciò di cui facciamo esperienza più spesso è il perderci, il dimenticarci chi siamo, dove andiamo, con chi. Spesso siamo i primi a fuggire dalla vita, da noi stessi, dagli altri.

La storia della salvezza, così come la nostra storia personale, racconta tanti di questi episodi.

Ma il rimanere di cui parla Gesù oggi non esclude tutto questo, anzi: non è un caso che i discorsi di addio, di cui questo capitolo fa parte, sono messi dall’evangelista Giovanni prima della Passione di Gesù, momento in cui quasi nessuno dei discepoli rimarrà, ma ciascuno si perderà. Per Gesù amare significa offrire all’altro una dimora così sicura, così aperta e accogliente, per cui l’altro può sempre ritornare e sentirsi a casa, come se non fosse mai andato via.

Rimanere non appartiene alla sfera delle capacità umane, ma all’orizzonte della misericordia di Dio, che ci ha talmente fatti suoi, ci ha talmente chiamati amici da offrirci un luogo dove rimanere anche nelle nostre fughe, mancanze, inadempienze, peccati: per quanto andiamo lontani, non usciamo mai da questo abbraccio, da questa dimora.

Si tratta, allora, di rimanere innanzitutto lì dove riconosciamo la nostra colpa e non tentiamo maldestramente di esserne indenni: non sarà il nostro peccato ad impedirci di rimanere, ma la nostra presunzione di non essere peccatori. Rimanere significa abitare nella misericordia del Signore, lì dove la grazia basta.

Tutto questo è la vera, grande gioia possibile per l’uomo: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv.15,11).

Ci può essere la tentazione di pensare che un amore così, che chiede un’accoglienza totale e un dono di sé fino alla fine, sia un ostacolo alla vera gioia; e nel nostro immaginario moderno, il termine rimanere ha più una sfumatura di costrizione, che di libertà.

Per Gesù non è così: Lui per primo conosce una “sua gioia” (Gv.15,11) che è quella di aver osservato i comandamenti del Padre Suo, cioè di essere rimasto unito a Lui in un’unica volontà, un’unica vita. Lì ha ricevuto tutto.

E vuole che questo suo stile di gioia sia anche dei suoi discepoli, lì dove loro imparano ad amarsi gli uni gli altri, ad essere gli uni per gli altri quella dimora buona capace di accogliersi nelle proprie diversità e fatiche, capaci di perdonarsi.

Capaci di vivere quel rimanere gli uni negli altri che dice una relazione più forte di quella dei legami del sangue, una relazione per cui l’altro mi appartiene e, quindi, mi interessa e non posso non averne cura, fino a dare la mia vita per gli altri: questo significa essere amici (Gv.15,13) nello stile del Signore.



Ascensione 16/05/2021

ASCENSIONE DEL SIGNORE

At 1,1-11

Nel primo racconto, o Teofilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo.

Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo».

Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».

Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo». Parola di Dio

Salmo responsoriale Sal 46

Ascende il Signore tra canti di gioia.

Popoli tutti, battete le mani!
Acclamate Dio con grida di gioia,
perché terribile è il Signore, l’Altissimo,
grande re su tutta la terra.

Ascende Dio tra le acclamazioni,
il Signore al suono di tromba.
Cantate inni a Dio, cantate inni,
cantate inni al nostro re, cantate inni.

Perché Dio è re di tutta la terra,
cantate inni con arte.
Dio regna sulle genti,
Dio siede sul suo trono santo.

SECONDA LETTURA – Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini 4,1-13

Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace.

Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.

A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo è detto: «Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini». Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose.

Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.

Parola di Dio

Vangelo     

Dal Vangelo secondo Mc.16,15-20

In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».

Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.

Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.

Parola del Signore

Commento di padre Antonio Rungi

La solennità dell’Ascensione che oggi celebriamo è un forte appello alla gioia del cuore, una gioia che sperimentiamo sulla terra e soprattutto a quella gioia che aspiriamo di raggiungere nella pienezza nel cielo, dove Cristo ci ha preceduto e ha preparato un posto per tutti, senza esclusione di nessuno. La liturgia della santa messa di oggi inizia proprio con la bellissima preghiera della colletta: “Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode, poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro capo, nella gloria”. La gioia che siamo chiamati a sperimentare è di tutta la chiesa e di tutta l’umanità, in quanto in Cristo asceso al cielo noi abbiamo la certezza, se seguiamo le sue orme ed il suo insegnamento, di raggiungerlo a conclusione dei nostri giorni terreni. Questa certezza assoluta ci spinge a comportarci in maniera degna della nostra vocazione.

Ed il salmo responsoriale di questa solennità ci invita nuovamente a vivere nella gioia e ad esultare per quanto oggi celebriamo: “Popoli tutti, battete le mani! Acclamate Dio con grida di gioia, perché terribile è il Signore, l’Altissimo, grande re su tutta la terra. Ascende Dio tra le acclamazioni, il Signore al suono di tromba. Cantate inni a Dio, cantate inni, cantate inni al nostro re, cantate inni. Perché Dio è re di tutta la terra, cantate inni con arte. Dio regna sulle genti, Dio siede sul suo trono santo”.

Siamo quindi ad esultare di gioia tutti. Ma siamo persone gioiose, viviamo davvero nella gioia che ci viene dall’alto, dove Cristo si è assiso alla destra del Padre, come ci ricorda il testo degli Atti degli Apostoli. Il mistero della fede nell’ascensione del Signore è un mistero di tale profondità, che solo chi ha vera fede può aderirvi pienamente. Di fronte ad una cultura che guarda solo nell’orizzonte terreno, parlare di un destino eterno dell’uomo non è facilmente accettabile e condivisibile. Per cui, convinti più che mai che siamo persone fatte per l’eternità, noi dobbiamo camminare verso il cielo con sempre maggiore consapevolezza che è quella la nostra patria definitiva. Non possiamo avere tentennamenti o indecisioni, ma solo certezze e sicurezze di fede e di comportamenti rispondenti ai cercatori del cielo e non delle cose della terra. Ce lo rammenta con parole molto belle e semplici, l’Apostolo Paolo nel brano della sua lettera agli Efesini che oggi ascoltiamo.

I capisaldi della morale cristiana e dell’ascesi cristiana che ci indirizza all’eternità trovano in questo brano quelli più di immediata lettura, interpretazione ed applicazione. Le virtù fondamentali della vita morale stanno indicate in questo testo: umiltà, dolcezza, magnanimità, sopportazione, amore, unità e pace. Sono virtù che dobbiamo esercitare senza mezze misure. Il Paradiso lo si conquista con questi comportamenti morali che attingono la loro forza proprio dal mistero del Cristo morto, risorto ed asceso al cielo. Di queste verità di fede dobbiamo tutti farci portavoce, senza paura di fronte ad un mondo distratto da tante cose e che ha decretato, in molti ambienti, la morte di Dio, lasciando l’umanità nello smarrimento e nella confusione più totale. Noi, che confermiamo ancora una volta oggi, la nostra fede nell’eternità, vogliamo annunciare il vangelo della gioia con la stessa forza e lo stesso coraggio dei primi apostoli. Essi su mandato di Gesù stesso, prima di ascendere al cielo, fecero esattamente quello che il Maestro e Signore chiese a loro. Infatti ci ricorda il brano del Vangelo di Marco che “essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano”.

Missionari della gioia nel mondo, come ci raccomanda Papa Francesco continuamente nel suo magistero, a partire dall’esortazione apostolica Evangeli gaudium alla quale dobbiamo ispirare, oggi, nel contesto della chiesa del XXI secolo l’azione evangelizzatrice in ogni angolo della terra, a partire dai nostri ambienti di vita e di missione. “Invito ogni cristiano -scrive Papa Francesco- in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui, perché «nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore». Chi rischia, il Signore non lo delude, e quando qualcuno fa un piccolo passo verso Gesù, scopre che Lui già aspettava il suo arrivo a braccia aperte. Questo è il momento per dire a Gesù Cristo: «Signore, mi sono lasciato ingannare, in mille maniere sono fuggito dal tuo amore, però sono qui un’altra volta per rinnovare la mia alleanza con te. Ho bisogno di te. Riscattami di nuovo Signore, accettami ancora una volta fra le tue braccia redentrici». Ci fa tanto bene tornare a Lui quando ci siamo perduti! Insisto ancora una volta: Dio non si stanca mai di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere la sua misericordia. Colui che ci ha invitato a perdonare «settanta volte sette» (Mt 18,22) ci dà l’esempio: Egli perdona settanta volte sette. Torna a caricarci sulle sue spalle una volta dopo l’altra. Nessuno potrà toglierci la dignità che ci conferisce questo amore infinito e incrollabile. Egli ci permette di alzare la testa e ricominciare, con una tenerezza che mai ci delude e che sempre può restituirci la gioia. Non fuggiamo dalla risurrezione di Gesù, non diamoci mai per vinti, accada quel che accada. Nulla possa più della sua vita che ci spinge in avanti!”.

Pentecoste 23/05/2021

DOMENICA DI PENTECOSTE

At.2,1-11

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.

Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti; abitanti della Mesopotàmia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, Romani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

Meditazione di Don Giuseppe De Virgilio

  • L’evento della Pentecoste segna il compimento del progetto di Dio, secondo quanto Gesù aveva preannunciato (cf. Lc 24; Gv.16). Fissiamo la nostra attenzione sul mistero dello Spirito Santo, potenza di Dio che opera nella nostra storia. Il prodigio della Pentecoste porta a compimento il Mistero Pasquale di Cristo: dopo la sua morte e risurrezione, Gesù ascende al Cielo e invia lo Spirito di Santità e di amore affinché la Chiesa possa proseguire la sua missione. Dio compie le sue promesse e non ci abbandona nella vita: bisogna imparare ad aspettare e a vivere nel suo amore, in attesa che sia Lui il protagonista di ogni nostro progetto.
  • L’effusione dello Spirito ricalca il modello delle teofanie dell’Antico Testamento: un segno prodigioso dal Cielo, il vento, il fuoco, lo stupore: Dio dona liberamente lo Spirito a chi vuole per un progetto di vita. L’azione dello Spirito pervade il cosmo, luogo e tempo, interiorità ed esteriorità del creato e dell’uomo (cf. Pr 1,7): non possiamo sottrarci all’azione di Dio e alla sua forza trasformante. La novità che bramiamo non proviene dal nostro buon impegno, ma dall’iniziativa di Dio stesso che «fa nuove tutte le cose» (Ap.21,5).
  • A partire dal dono dello Spirito Santo alla Chiesa, inizia un nuovo tempo che caratterizza l’ultima fase della «storia della salvezza», prima della venuta finale del Signore. La comunità cristiana è investita di un mandato che non può tradire: annunciare il Vangelo della salvezza fino agli estremi confini della terra. In continuità con le promesse dell’Antico Testamento e la pienezza della rivelazione in Cristo crocifisso e risorto, la Chiesa esercita ora il suo mandato universale mediante l’azione dello Spirito vivificante.
  • Dall’evento della Pentecoste si può comprendere come Dio abbia operato mediante il suo spirito nella vita dei grandi protagonisti biblici: da Abramo agli apostoli. Lo Spirito ha guidato Gesù nel suo donarsi per la salvezza del mondo, ha sostenuto la Vergine Maria, ha ricolmato di forza i testimoni mandati da Dio (Giovanni Battista ecc.) e prosegue la sua opera nella comunità cristiana. La comunità è una «famiglia carismatica», che non deve «spegnere lo Spirito»; al contrario, deve accoglierlo e lasciarsi guidare dall’azione dello Spirito.
  • Nel giorno della Pentecoste gli apostoli «escono dal Cenacolo» annunciando in ogni lingua le «meraviglie di Dio». L’azione missionaria dell’evangelizzazione rappresenta la dinamica che la comunità è chiamata a vivere d’ora in poi. Ciascuna comunità illuminata e confortata dall’azione dello Spirito Santo non può che essere una «comunità carismatica e missionaria». In particolare il dono ricevuto tocca la dimensione profetica della comunità cristiana: «cominciarono a parlare in altre lingue» in piena libertà e «parresia» (franchezza profetica).
  • In tal modo si porta a compimento la promessa auspicata da Mosè (cf Nm 11,29) ed annunciata da Gioele (Gio.3,1-5): un giorno tutto il popolo diventerà profeta e lo Spirito di Dio scenderà in ciascun credente. Tutti siamo chiamati a vivere nella forza attrattiva dello Spirito Santo, ciascuno secondo il dono ricevuto, al fine di edificare la Chiesa, tempio dello Spirito.