Prima lettura(20/02/2021)

I Lettura della Veglia Pasquale

Dal libro della Gènesi (1, 26-31 forma breve)

In principio Dio creò il cielo e la terra.

Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra».

E Dio creò l’uomo a sua immagine;

a immagine di Dio lo creò:

maschio e femmina li creò.

Dio li benedisse e Dio disse loro:

«Siate fecondi e moltiplicatevi,

riempite la terra e soggiogatela,

dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo

e su ogni essere vivente che striscia sulla terra».

Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutti gli animali selvatici, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde». E così avvenne. Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona.

parola di Dio

Salmo responsoriale

Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra.

Benedici il Signore, anima mia!
Sei tanto grande, Signore, mio Dio.
Sei rivestito di maestà e di splendore,
avvolto di luce come di un manto.

Egli fondò la terra sulle sue basi:
non potrà mai vacillare.
Tu l’hai coperta con l’oceano come una veste;
al di sopra dei monti stavano le acque.

Tu mandi nelle valli acque sorgive
perché scorrano tra i monti.
In alto abitano gli uccelli del cielo
e cantano tra le fronde.

Dalle tue dimore tu irrighi i monti,
e con il frutto delle tue opere si sazia la terra.
Tu fai crescere l’erba per il bestiame
e le piante che l’uomo coltiva
per trarre cibo dalla terra.

Quante sono le tue opere, Signore!
le hai fatte tutte con saggezza;
la terra è piena delle tue creature.
Benedici il Signore, anima mia.

Meditazione Gen.1,26-31 (forma breve)

L’atto della creazione dell’uomo, al sesto giorno, è preceduto da un soliloquio
divino con il verbo al plurale: «Facciamo l’umanità». Perché?
Fino a questo momento, quando parlava, Dio ha usato formule del tipo «sia la luce», «le acque si raccolgano» o «la terra produca e le acque brulichino»; non ha mai fatto ricorso ad una formula così tanto personale come «facciamo».
È significativo che la creazione dell’uomo sia preceduta da questa sorta di dichiarazione con cui Dio esprime l’intenzione di creare l’uomo a sua immagine, anzi «a nostra immagine», al plurale: secondo un’antica interpretazione il Creatore dialoga con sé stesso, con la profondità del suo essere, come fa una persona quando sta per prendere una decisione importante. Ciò indica che l’intenzione di creare l’essere umano nasce da una matura riflessione ed esprime il preciso desiderio divino di porre un’attenzione particolare all’umanità quale compimento della creazione.
L’interpretazione cristiana ha pensato da prestissimo ad un dialogo fra Dio e il Verbo, il Lógos che era in principio presso Dio (cf. Gv 1,1 ss.), ed è arrivata col tempo a leggere questo testo nel senso di una teologia trinitaria. L’Epistola di Barnaba dice: «Il Signore, a cui Dio aveva detto alla creazione del mondo: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e a nostra somiglianza”, ha sofferto per compiere la promessa» (V,5). E Giustino: «Questo Figlio, generato dal Padre prima di tutte le creature, era con il Padre ed è con lui che il Padre si intrattiene» (Dialogo con Trifone 62).
Secondo S.Ireneo qui Dio parla al Verbo che fa e rifà l’uomo (Contro le eresie V.15.4), parla al Figlio e allo Spirito che sono «le due mani di Dio» (Contro le eresie, IV.20.1; V.1.3). Per S.Agostino da questo passo bisogna imparare «a vedere la Trinità dell’unità e l’unità della Trinità» (Confessioni XIII.22.32).
-A questa deliberazione segue l’atto: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò».
Colpisce in questa frase il triplice uso del verbo «creò» («baràh»), che sembra
testimoniare una particolare importanza e intensità dell’atto creatore; ciò anche per il fatto che, mentre ogni giorno della creazione si conclude con l’annotazione: «Dio vide che era cosa buona», dopo la creazione dell’uomo è detto che «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (1,31).
L’ultimo atto creativo di Dio è l’uomo, il capolavoro, il più importante tra gli esseri viventi. Egli proviene dalla sua libera e sovrana decisione di creare un interlocutore con cui avere una relazione intima, fondata su un patto di fedeltà nella libertà e nell’amore; una creatura con la quale intrattenere un dialogo col linguaggio della parola, dell’ascolto e del silenzio.
Una decisione che ci iscrive in un orizzonte luminoso riscattandoci dalla fragilità di cui siamo impastati. Certo, siamo un piccolo effimero frammento dell’universo, ma con una insopprimibile chiamata a trascenderci, che reca l’impronta della Sorgente da cui siamo sgorgati.
Un Dio che chiama per nome, che apre il dialogo, un Dio-Amore.
Un Dio-Trinità che si direbbe alla ricerca di un “tu” che gli sia quasi alla pari, capace di rispondergli nella libertà.
“Per Dio l’uomo è il “tu” creato. Tra tutte le creature egli è quell’io personale, che può rivolgersi a Dio e chiamarlo per nome” (S. Giovanni Paolo II).
In ebraico esistono diversi termini per designare l’«uomo»; qui è usato «Adam», un nome collettivo che indica l’intera umanità. L’importanza dell’essere umano è data dal fatto che egli non è creato «secondo la specie» com’è avvenuto per la flora (1,12-13), la fauna marina (1,21) e terrestre (1,24-25), bensì a «immagine e somiglianza» di Dio (1,26b).
Nel mondo antico, il re era solito collocare nelle regioni più lontane del suo regno una statua che lo rappresentasse e ricordasse a tutti chi era il sovrano; per l’autore di Gn.1 ogni «Adam» è «immagine», per rappresentare visivamente Dio in terra.
Pur essendo fatto «poco meno di un dio» (cfr. Sal 8,6), ciascun essere umano è solo “somigliante” a Dio, cioè ha “forma analoga” ma non coincidente in tutto e per tutto al suo Creatore; l’uomo non si dà la vita da sé stesso, perché esiste dipendendo da Dio, è creatura che deve il senso profondo della propria identità a Lui.
I padri della Chiesa avevano sottolineato il fatto che l’uomo è stato creato ad immagine, ma è chiamato a farsi «somiglianza». Scrive San Gregorio di Nissa: “Possediamo l’immagine attraverso la creazione, ma acquistiamo la somiglianza per libera scelta. Ci è dato di nascere nell’immagine di Dio, per libera scelta invece si formerà in noi l’essere a somiglianza di Dio. Egli ci ha dato il potere per fare questo […] è giusto che una parte ti sia data, mentre l’altra è stata lasciata incompleta: questo al fine che tu possa completarla e possa essere degno della ricompensa che viene da Dio”.
Nel libro della Sapienza (2,23) è detto: «Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece ad immagine della propria natura». L’uomo, dunque, è creato per l’immortalità, e non cessa di essere immagine di Dio dopo il peccato, anche se viene sottomesso alla morte. Porta in sé il riflesso della potenza di Dio, che si manifesta soprattutto nella facoltà dell’intelligenza e della libera volontà. L’uomo è soggetto autonomo, fonte delle proprie azioni, pur mantenendo le caratteristiche della sua dipendenza da Dio, suo creatore.
-L’umanità creata è distinta in «maschio e femmina» (1,27a): si noti lo slittamento dal singolare «lo creò» al plurale «li creò». I due sessi sono creati contemporaneamente, in assoluta parità, poiché dotati della medesima dignità di immagine di Dio. La differenza sessuale non comporta separazione né contrapposizione, quanto piuttosto distinzione nella comunione reciproca.
D’altronde la tradizione biblica, oltre ai tratti maschili conosciuti, attribuisce al Signore anche quelli tipicamente femminili (cfr. Is.42,14: “partoriente”; cfr. Is. 49,13-15 e 66,12-13: “rapporto madre-figlio”; cfr. Os 2 e 11, cfr. Ger.31,20: “tenerezza materna”).
Dio ha posto alcune sue caratteristiche nel maschio ed altre, complementari, nella femmina, in modo che la loro unione possa essere “icona di Dio” sulla terra nel dialogo e nella comunione.
Ed ecco disegnarsi il volto umano con il suo insopprimibile bisogno di rispecchiarsi, a sua volta, in un “tu” che sia “carne dalla sua carne”, per spingersi poi oltre, fino a riallacciare il dialogo iniziale con il suo Creatore.
Qui l’uomo è e realizza pienamente sé stesso.
Ogni volta che la dimensione relazionale viene a incrinarsi o addirittura ad infrangersi, l’uomo sperimenta dentro di sé come una ferita insanabile, una dissociazione interiore. È come se gli fosse sottratta una parte di sé stesso. E non si può vivere così, spaccati interiormente.
Tanta aggressività in noi stessi e nella società, tante vite che si spengono accartocciate su sé stesse sono il frutto di questo attentato al nostro essere “immagine” di un Dio-dialogo.
“La prova più forte che siamo fatti ad immagine della Trinità è questa: solo l’amore ci rende felici, perché viviamo in relazione per amare e viviamo per essere amati.
Usando un’analogia suggerita dalla biologia, diremmo che l’essere umano porta nel proprio “genoma” la traccia profonda della Trinità, di Dio-Amore” (Benedetto XVI).
Ogni particella del creato quando osserva l’amore che vi è tra un uomo e una donna sa che il volto del Signore è presente, che la sua «immagine» continua a riempire la terra.
All’uomo e alla donna il Creatore concede per prima cosa la possibilità di partecipare della sua stessa vita e la capacità di trasmetterla (1,28a). Non si tratta, però, di un comando da eseguire in modo meccanico, quanto piuttosto di un dono affidato. Il testo, infatti, non si esprime con un «Dio disse e fu» (cfr. 1,3) e neppure con «Dio li benedisse e così avvenne» (cfr. 1,22; 8,15; 9,1), quanto piuttosto con «Dio li benedisse e disse loro».
Trasmettendo la vita ai propri figli, uomo e donna donano loro in eredità quell’«immagine di Dio», che fu conferita al primo uomo nel momento della creazione.

Il Creatore «li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite
la terra; soggiogatela e dominate sui pesci… e sugli uccelli… e su ogni essere vivente”» (1,28). La creazione a immagine di Dio costituisce il fondamento del
dominio sulle altre creature del mondo visibile le quali sono state chiamate all’esistenza in vista dell’uomo e per lui.
Ogni essere umano (maschio o femmina che sia) potrà esercitare, a nome del Creatore, una sovranità limitata sulla terra, espressa con due verbi molto forti: “soggiogare” e “dominare” (1,28b). Il primo «kabash» indica il “sottomettere” una regione e quindi stabilirvi la propria sovranità; il secondo «radah» richiama l’azione del “lasciare l’impronta su qualcosa”. Queste sono azioni tipiche di un re e vengono estese ad ogni persona umana: perciò “icona della divinità” non è più il solo sovrano – come accadeva presso le popolazioni mediorientali antiche – bensì ogni essere umano, che riceve così una responsabilità enorme.
Ciascun «Adam» è invitato a imitare Dio nel modo di “dominare” e “soggiogare” la terra: non può sfruttarla in modo devastante, ma deve utilizzare le sue risorse in modo rispettoso, perché la terra è di Dio (Le. 25,23). L’uomo non può essere né tiranno né conquistatore, quanto piuttosto un “re pacifico e non violento” (cfr. Sal. 72), interessato alla vita, al benessere e alla giustizia su tutto il creato.
In questo modo l’uomo diventa una espressione particolare della gloria del Creatore nel mondo creato. «La gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo è la visione di Dio», scrive sant’Ireneo.
L’uomo è chiamato a diventare, tra le creature del mondo visibile, un portavoce della gloria di Dio, e, in un certo senso, una parola della sua Gloria.

L’insegnamento sull’uomo contenuto nelle prime pagine della Bibbia s’incontra con la rivelazione del Nuovo Testamento sulla verità di Cristo, che, Verbo eterno, è «immagine del Dio invisibile», «generato prima di ogni creatura» (Col. 1,15).
Adamo – scrive san Paolo – «è figura di colui che doveva venire» (Rm. 5,11). Infatti, «quelli che… da sempre ha conosciuto (Dio Creatore) li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli» (Rm. 8,29).
La creazione dell’uomo a immagine di Dio raggiunge la pienezza del suo significato con la chiamata a essere conforme a Cristo.

Seconda lettura(27/02/2021)

II lettura della Veglia Pasquale

Dal libro della Genesi (22, 1-18)

In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».
Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato. Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo. Allora Abramo disse ai suoi servi: «Fermatevi qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi». Abramo prese la legna dell’olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutti e due insieme.
Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: «Padre mio!». Rispose: «Eccomi, figlio mio». Riprese: «Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?». Abramo rispose: «Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!». Proseguirono tutti e due insieme. Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna, legò suo figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».
Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. Abramo chiamò quel luogo «Il Signore vede»; perciò oggi si dice: «Sul monte il Signore si fa vedere». L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».


Parola di Dio

Salmo responsoriale

Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.


Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.
Io pongo sempre davanti a me il Signore,
sta alla mia destra, non potrò vacillare.

Per questo gioisce il mio cuore
ed esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,
perché non abbandonerai la mia vita negli inferi,
né lascerai che il tuo fedele veda la fossa.

Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena alla tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.

ABRAMO NOSTRO PADRE NELLA FEDE

Il sacrificio di Isacco – di Carlo M. Martini
Vogliamo meditare sulla prova di Abramo raccontata nel Cap. 22 della Genesi. Essa rappresenta il momento culminante dell’esperienza di Abramo, una prova a cui nessuno si può avvicinare in maniera neutrale. In che cosa consiste la prova di Abramo? Quali sono le nostre prove? Innanzitutto, chiediamoci: da quale conoscenza di Dio è partito Abramo? Abramo è partito da una conoscenza astrologica, certamente imperfetta, di un Dio di cui si può disporre, dal quale si ottengono favori attraverso riti, di cui si può prevedere dove va, dove non va, guardando il corso degli astri. Quindi un Dio di cui in qualche maniera siamo sicuri, che rende sicura la nostra vita, perché su di lui possiamo contare. Ora vediamo che Abramo, dal Dio su cui può contare, di cui può disporre, passa gradualmente al Dio che dispone di lui, ne dispone continuamente, sempre di più, con prove sempre più sottili, difficili, intercalate da promesse, lo raffina in questa conoscenza e lo porta al Dio della promessa, al Dio al quale bisogna appoggiarsi interamente, totalmente, unicamente, al Dio che ha in mano il destino della sua vita, che lo conosce, ma di cui Abramo non riesce a vedere le realizzazioni concrete. Abramo aveva creduto nel Dio della promessa, nel Dio che lo conduce, anche se non lo vede, nel Dio che gli prepara una terra ed un popolo. Ed ecco finalmente un figlio…Ma ad un certo punto tutto sembra essere rimesso in questione. Ad Abramo è richiesto un nuovo salto nella conoscenza di Dio. Il testo ha avuto tantissime interpretazioni. Da quelle “morbide”, secondo cui lo scopo del testo è quello di dimostrare che Dio non vuole sacrifici umani, a quelle “dure”, secondo cui lo scopo è quello di dimostrare come il giudizio su ciò che è eticamente macabro e ingiusto (come l’uccisione di un figlio) può essere sospeso di fronte ad un’istanza più alta. Inserendomi tra queste letture vorrei tentare una riflessione rifacendomi al testo biblico. L’uomo di fronte al caso limite. Cosa c’è di positivo nella mossa di Abramo? Mi pare che ci sia semplicemente questo: la prova di Abramo è, come ogni prova seria, un mettere l’uomo di fronte al caso limite, dove l’uomo mostra veramente ciò che è. La fede di Abramo viene provocata fino al limite estremo. Volendo far parlare Abramo con Dio senza troppa psicologia, con molta semplicità, Abramo direbbe: insomma, mi hai promesso tanto, ho atteso per tanto tempo, finalmente mi hai dato un inizio del popolo che mi hai promesso, mi hai dato una speranza per il futuro, come pegno che sei il mio Dio, e adesso mi dici di toglierlo di mezzo? Che sarà di me? Dov’è allora la benedizione di Dio? Le prove che sconvolgono la nostra fede. Anche noi, come Abramo, abbiamo delle prove che sono come frecce infuocate contro la nostra identità di credenti. A volte, di fronte a certi eventi, ci chiediamo: dov’è Dio, perché non interviene? Certe prove, fisiche o morali, sono a volte interminabili, strazianti, e fanno percepire l’assenza di Dio. Dio non viene in aiuto, lascia che la persona si degradi nella sofferenza. Perché succede questo? È il problema del male che è il comune denominatore di tutte le obiezioni su Dio. Su queste prove, a partire dalla prova di Abramo, propongo alcune riflessioni molto semplici. Le prove di ogni giorno. La prima riflessione è questa: Dio ci prova e la prova ci aspetta. Perché? Evidentemente perché in un mondo in cui è presente il male, è fatale che chi fa il bene trovi ostacoli. Di fatto la prova è inevitabile nella vita. Perché però la prova estrema? Dò una risposta che non so se è pienamente corretta: perché Dio è Dio, cioè è colui che si dona nella fede, si dona attraverso un cammino di fede, e questo cammino suppone il superamento di una nostra idea di Dio tendenzialmente sbagliata. Noi spesso cerchiamo un Dio della sicurezza, chiaro, evidente, e non sempre riusciamo ad adeguare la nostra immagine di Dio e ciò che Lui è veramente. Da qui il ragionamento frequente che avviene nella prova: perché Dio non mi aiuta? O Dio non l’ho capito o non c’è! La prova allora è una scelta fra queste due vie.
Seconda riflessione: la prova, proprio perché tale, rischia di far cadere, è pericolosa, ed ha qualcosa di incomprensibile. Pensiamo alla morte. La morte è il contrario della promessa di vita di Dio, è la prova più assurda.
Da qui la terza riflessione: la prova è una prova! Se capissi questo, cambierebbe il nostro atteggiamento. Saremmo colpiti, ma sapremmo anche essere tranquilli, daremmo un significato. Il vangelo più fondamentale è proprio questo: la prova è prova di Dio nelle cui mani io sto. Anche nelle prove peggiori, estreme, dobbiamo riuscire a capire di essere nella prova, ma Dio ci ha nelle sue mani. La tradizione neotestamentaria ha letto nella storia di Abramo l’amore di Dio che, dandoci il Figlio, ci assicura che nessuna prova, di nessun tipo, potrà mai andare al di là di una prova, cioè separarci come tale dall’amore di Dio. La prova, da parte di Dio, rimarrà prova e non diventerà scandalo.
La prova è prova di un Dio che ci tiene saldamente in mano.

Terza lettura (6/03/2021)

III lettura della veglia di Pasqua

Dal libro dell’Esodo 14,15 – 15,1

In quei giorni, il Signore disse a Mosè: «Perché gridi verso di me? Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino. Tu intanto alza il bastone, stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel mare all’asciutto. Ecco, io rendo ostinato il cuore degli Egiziani, così che entrino dietro di loro e io dimostri la mia gloria sul faraone e tutto il suo esercito, sui suoi carri e sui suoi cavalieri. Gli Egiziani sapranno che io sono il Signore, quando dimostrerò la mia gloria contro il faraone, i suoi carri e i suoi cavalieri».

L’angelo di Dio, che precedeva l’accampamento d’Israele, cambiò posto e passò indietro. Anche la colonna di nube si mosse e dal davanti passò dietro. Andò a porsi tra l’accampamento degli Egiziani e quello d’Israele.
La nube era tenebrosa per gli uni, mentre per gli altri illuminava la notte; così gli uni non poterono avvicinarsi agli altri durante tutta la notte.

Allora Mosè stese la mano sul mare. E il Signore durante tutta la notte risospinse il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero. Gli Israeliti entrarono nel mare sull’asciutto, mentre le acque erano per loro un muro a destra e a sinistra. Gli Egiziani li inseguirono, e tutti i cavalli del faraone, i suoi carri e i suoi cavalieri entrarono dietro di loro in mezzo al mare.

Ma alla veglia del mattino il Signore, dalla colonna di fuoco e di nube, gettò uno sguardo sul campo degli Egiziani e lo mise in rotta. Frenò le ruote dei loro carri, così che a stento riuscivano a spingerle. Allora gli Egiziani dissero: «Fuggiamo di fronte a Israele, perché il Signore combatte per loro contro gli Egiziani!».
Il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano sul mare: le acque si riversino sugli Egiziani, sui loro carri e i loro cavalieri». Mosè stese la mano sul mare e il mare, sul far del mattino, tornò al suo livello consueto, mentre gli Egiziani, fuggendo, gli si dirigevano contro. Il Signore li travolse così in mezzo al mare. Le acque ritornarono e sommersero i carri e i cavalieri di tutto l’esercito del faraone, che erano entrati nel mare dietro a Israele: non ne scampò neppure uno. Invece gli Israeliti avevano camminato sull’asciutto in mezzo al mare, mentre le acque erano per loro un muro a destra e a sinistra.

In quel giorno il Signore salvò Israele dalla mano degli Egiziani, e Israele vide gli Egiziani morti sulla riva del mare; Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l’Egitto, e il popolo temette il Signore e credette in lui e in Mosè suo servo.

Allora Mosè e gli Israeliti cantarono questo canto al Signore e dissero:

Cantiamo al Signore: stupenda è la sua vittoria!

«Voglio cantare al Signore,
perché ha mirabilmente trionfato:
cavallo e cavaliere
ha gettato nel mare.
Mia forza e mio canto è il Signore,
egli è stato la mia salvezza.
è il mio Dio: lo voglio lodare,
il Dio di mio padre: lo voglio esaltare!

Il Signore è un guerriero,
Signore è il suo nome.
I carri del faraone e il suo esercito
li ha scagliati nel mare;
i suoi combattenti scelti
furono sommersi nel Mar Rosso.

Gli abissi li ricoprirono,
sprofondarono come pietra.
La tua destra, Signore,
è gloriosa per la potenza,
la tua destra, Signore,
annienta il nemico.

Tu lo fai entrare e lo pianti
sul monte della tua eredità,
luogo che per tua dimora,
Signore, hai preparato,
santuario che le tue mani,
Signore, hanno fondato.
Il Signore regni
in eterno e per sempre!».

Il passaggio del Mar Rosso

(meditazione di Carlo Maria Martini)


Nella nostra attuale liturgia pasquale il testo di Es. 14, 15-15, 1, che è la terza lettura della Veglia, costituisce un elemento centrale; ad esso segue il cantico di Es. 15, 1-7.17-18. Benché la parola «Pasqua» primariamente si dovrebbe riferire alla festa degli azzimi e alla notte dell’agnello, di cui si parla effettivamente in Es. 12, la tradizione cristiana ha esteso il significato del termine «Pasqua» fino a comprendere il passaggio del Mar Rosso; anzi, il passaggio del Mar Rosso ha costituito un po’ la tipologia che ha assorbito tutto il resto.

  1. La notte del terrore
    Per cercare di capire meglio che cosa sia avvenuto quando gli Israeliti furono presi dalla «grande paura», ho costruito un piccolo midrash, al modo dei rabbini; un raccontino che chiamo il «midrash della tenda». Immaginiamo la scena. La notte cala molto presto nel deserto; ora siamo all’inizio della notte. A qualche centinaio di metri si sente il va e vieni delle onde del mare, a sinistra si vede l’accampamento degli Ebrei. Si accendono i primi fuochi; tutti sono affaccendati, gesticolano, raccolti in piccoli capannelli gli uomini discutono; c’è qualcosa di grave nell’aria: un momento di tragedia si sta avvicinando; qualcuno corre nel campo lontano, ritorna, porta notizie. L’eccitazione cresce.
    Parlano gli anziani d’Israele, gridano, inveiscono, come fanno gli orientali quando si adirano. Cerchiamo di capire cosa dicono. Uno dice: «Ecco, Mosè, dove ci hai portato! Ti abbiamo creduto, pensavamo che Dio ti avesse parlato; e invece siamo qui a morire come topi: o ci gettiamo in mare e moriamo annegati, o ci lasciamo uccidere dal faraone. Ecco dove siamo: è la fine per Israele!». Un altro si alza e dice: «Credevamo che tu, Mosè, fossi cambiato; ti conoscevamo imprudente e cocciuto, ma credevamo che il deserto ti avesse giovato. Invece sei rimasto proprio uguale a quello che eri e ci hai fatto di nuovo precipitare nel disastro. Un terzo: «Fratelli, ascoltatemi: noi abbiamo delle armi (infatti dice il v. 16 del cap. 13: «Gli Israeliti bene armati uscirono dal paese d’Egitto»); è vero che gli Egiziani sono potentissimi, ma se andremo contro di loro, almeno chiuderemo la nostra storia gloriosamente. Moriamo da eroi e diamo lode a Jahvé cadendo con le armi in pugno!». Un quarto, più venerabile degli altri, dice: «Fratelli, ascoltatemi: ho molta esperienza della vita. Conosco bene Mosè e non ho avuto molta fiducia in lui nemmeno quando è tornato; capivo che era un visionario. Tuttavia, ascoltatemi: il faraone, lo conosco, non è cattivo; inoltre ha bisogno di noi, quindi non ha nessuna intenzione di sterminare il nostro popolo, ma anzi ha tutto l’interesse di reintegrarci nella nostra situazione. Siamo umili e non tentiamo Dio: la nostra posizione è insostenibile. Mandiamo quindi un’ambasceria al faraone; Mosè non si faccia proprio vedere; vadano invece alcuni dei nostri uomini saggi a dirgli: ‘ Abbiamo peccato, riaccoglici, siamo pronti a tornare indietro: ci siamo fidati di quest’uomo che ci ha ingannati ‘». Poi il tono di questo vecchio si fa più suadente, più forte: «Fratelli, ascoltatemi: il faraone significa la sicurezza, la pace, il pane per i nostri figli; non rigettate questa offerta, non siate pazzi!». Un altro si alza a dire: «E se veramente Dio avesse parlato a Mosè? Cosa faremo: andremo contro Dio?». Ma un altro lo contraddice: «No, non è possibile, Dio non può abbandonare il suo popolo. La nostra situazione è disperata: come può Dio volere la nostra disperazione?».
    Da una parte c’è Mosè; dall’altra c’è il faraone con le sue minacce, ma anche con le sue promesse ragionevoli rispetto al complesso dell’esistenza.
    Chiediamoci: «Chi è il faraone, e chi è Mosè?». Il faraone rappresenta una vita accomodante e accomodata: una vita che tiene conto dei compromessi necessari per garantire una certa quiete. Una vita in cui si salvano capra e cavoli. Una vita nella quale mantengo la mia professione di fede, la mia confessione cristiana, esteriormente e l’accomodamento alla tranquillità mondana, che è un equilibrio ottenuto attraverso un sapiente dosaggio di sequela del Signore e di una certa sicurezza a cui non rinunzio. Questo faraone rappresenta davvero la tentazione di ogni uomo in questo mondo. E qui ciascuno potrebbe riflettere su cosa significhi per lui questo ragionevole compromesso, della ragionevole quiete.
    Mosè è l’insicurezza della sequela di Gesù: quella che riguarda coloro i quali accettano la sfida di una vita evangelica, dato che questa, come vita evangelica, è schiaffo per il mondo e schiaffo per tutti i nostri tentativi di salvarci costruendoci degli angoli di tranquillità.
    Riassumendo: il faraone rappresenta la vita secondo lo spirito del mondo. Mosè rappresenta la vita secondo il Vangelo: una vita fondata soltanto sulla Parola di Dio, quindi una vita che non ammette il compromesso
  2. Che cosa farà Mosè?
    Nel nostro midrash finora Mosè è stato zitto. Cerchiamo di entrare dentro il suo cuore, ove ronzano mille pensieri. Cosa avrebbe potuto fare Mosè? Secondo me aveva quattro possibilità fondamentali.
    • La prima possibilità era quella di svignarsela, dicendo: «Fratelli, ciò che avete detto è molto importante e degno di attenta considerazione. Tornate alle vostre tende, datemi un’ora di tempo e poi ci ritroveremo». Nel frattempo, poteva partire e ritornarsene nel deserto.
    • La seconda era quella di armare il popolo conformemente al consiglio di alcuni: «Armiamoci e moriamo da eroi!». È la scelta del Vangelo interpretato falsamente come eroismo: batterci in maniera spasmodica per il Vangelo, cercando gloria, ma una gloria mondana e faraonica.
    • La terza, anch’essa faraonica, era quella di organizzare il ritorno, dicendo: «Fratelli, avete ragione. lo sono l’unico che posso proporre questo agli Israeliti ed essi mi ascolteranno: mandiamo un’ambasceria e trattiamo».
    • La quarta infine consisteva nel fidarsi di Dio, dicendo: «Signore, tu mi hai portato qui; tu agirai». Una possibilità quasi pazzesca, perché consiste nel non far niente. «E se Dio avesse deciso – poteva pensare Mosè – di non aiutarmi? Tutto mi crollerebbe addosso!». Proprio qui sta la scelta di fede che viene chiesta a Mosè: si tratta di affrontare l’incognita di Dio. D’altronde la fede richiede altre decisioni, ma si ha paura di prenderle. Quanto più terribile, invece, in quella situazione il dire: «Il Signore ha parlato, il Signore si mostrerà». Che cosa sceglie dunque Mosè? Sceglie quello che può, barcamenandosi. . . Secondo me Mosè ha due facce in questa scelta, come ogni altro uomo. La prima è quella del coraggio, la seconda quella della paura. Egli le interpreta tutte e due. La prima, la faccia del coraggio, è quella che egli, con la grazia di Dio, interpreta di fronte al popolo: «Il Signore combatterà per voi e voi state tranquilli» (Es. 14, 11-14).
      D’altra parte, è innegabile che anche Mosè avesse la sua paura; infatti, subito dopo queste parole coraggiose, il racconto biblico prosegue dicendo: «Il Signore disse a Mosè: ‘ Perché gridi verso di me? ‘» (14, 15). Ciò significa che mentre Mosè diceva alla gente di starsene tranquilla, dal canto suo egli stesso gridava al Signore. E la sua paura era forte, come leggiamo in un altro passo dell’Esodo, dove Mosè invoca l’aiuto del Signore dicendo: «Che farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno» (17,4)
  3. Il passaggio del Mar Rosso
    Ma ecco che, nel suo gridare verso il Signore, la fede di Mosè si purifica, finché il Signore stesso interviene: «Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino. Tu intanto alza il bastone e stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel mare all’asciutto» (14, 15s.). Viene poi descritta la scena del passaggio del Mar Rosso: tutto si svolge in modo dignitoso e solenne, come se si trattasse di una processione regale. Israele avanza nella notte, quasi per dire come Dio fa le cose facili quando ci si abbandona a lui, quando ci si abbandona totalmente e gli si dice: «Eccomi, Signore, per fare la tua volontà; non capisco niente, ma avrà certo un senso questa prova che tu mi mandi; allora le cose si svolgono con esemplare semplicità, senza quell’affanno frenetico. La notte del terrore diventa la notte della pace e della tranquillità.
    Dice san Paolo che gli Israeliti «sono stati battezzati in Mosè». Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che hanno avuto fiducia in lui, fino ad entrare nell’acqua del mare, fiduciosi in Mosè: Dio gli ha parlato, e quindi avanti! Allo stesso modo, per noi «essere battezzati in Gesù» significa prendere su di noi il rischio di Gesù, e dirgli: «Signore, ti seguirò dove tu andrai». Ciò vuol dire decidersi a vivere una vita pasquale, una vita secondo lo Spirito: decidere di lasciarsi salvare dallo Spirito di Gesù. Gli Israeliti, seguendo Mosè, non fanno niente se non decidere di lasciar fare a Dio. E noi, seguendo Gesù, decidiamo di lasciarci salvare da lui: facciamo fiducia alla sua potenza infinita, alla sua sapienza, alla sua guida.
  4. Il canto pasquale dei battezzati
    Il cantico che si legge nel cap. 15 è una delle più antiche composizioni bibliche. Lo possiamo chiamare il «canto pasquale dei battezzati», cioè di tutti coloro che, avendo accettato di prendere su di sé il rischio di Gesù e scommettendo la propria vita sul Vangelo contro l’evidenza mondana, dicono: «Ma come è stato tutto così semplice: il Signore ci ha preso senza che nemmeno ce ne accorgessimo. Abbiamo visto cadere gli Egiziani; avevamo una paura matta di loro, che erano il popolo più potente del mondo, e invece sono là che galleggiano sul mare».
    Mosè canta: «Voglio cantare perché mirabilmente ha trionfato, gettando in mare cavallo e cavaliere». lo avevo paura dei cavalli, che corrono più di me, e dei cavalieri, che sono armati di lancia; e invece: «Mia forza e mio canto è il Signore. Egli mi ha salvato. È il mio Dio, il Dio dei nostri padri, lo voglio esaltare». I carri del faraone e tutto il suo esercito, tutta quella potenza che mi atterriva, tutti quegli ostacoli che mi sorgevano davanti («Ma non ce la farai; sarà una vita impossibile; dovrai andare contro le idee moderne; la tua vita non sarà più autentica»), tutte quelle inquietudini che spesso si ammantavano di psicologia o di sociologia («Ma vivere così non ha senso; la personalità non si sviluppa. . . »), tutto ciò è ormai sommerso nel Mar Rosso: «Gli abissi li coprirono e sprofondarono come pietra». E io non ho fatto niente. «La tua destra, Signore, terribile per potenza; la tua destra, Signore, annienta il nemico». È questo il canto del battezzato, che si riconosce salvato e dice: «Dio veramente ha combattuto per me; io ho detto di sì allo Spirito e il Signore ha fatto tutto». Chiediamo al Signore che ci faccia comprendere questa semplicità della scelta evangelica, che ogni giorno ci è chiesto di rinnovare.
Quarta lettura (13/03/2021)

IV lettura della Veglia Pasquale

Dal libro del profeta Isaia 54, 5-14

Tuo sposo è il tuo creatore, Signore degli eserciti
è il suo nome; tuo redentore è il Santo d’Israele,
è chiamato Dio di tutta la terra.
Come una donna abbandonata e con l’animo afflitto,
ti ha richiamata il Signore.
Viene forse ripudiata la donna
sposata in gioventù? – dice il tuo Dio.
Per un breve istante ti ho abbandonata,
ma ti raccoglierò con immenso amore.
In un impeto di collera
ti ho nascosto per un poco il mio volto;
ma con affetto perenne ho avuto pietà di te,
dice il tuo redentore, il Signore.
Ora è per me come ai giorni di Noè,
quando giurai che non avrei più riversato
le acque di Noè sulla terra;
così ora giuro di non più adirarmi con te
e di non più minacciarti.
Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero,
non si allontanerebbe da te il mio affetto,
né vacillerebbe la mia alleanza di pace,
dice il Signore che ti usa misericordia.
Afflitta, percossa dal turbine, sconsolata,
ecco io pongo sullo stibio le tue pietre
e sugli zaffìri pongo le tue fondamenta.
Farò di rubini la tua merlatura,
le tue porte saranno di berilli,
tutta la tua cinta sarà di pietre preziose.
Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore,
grande sarà la prosperità dei tuoi figli;
sarai fondata sulla giustizia.
Tieniti lontana dall’oppressione, perché non dovrai temere,
dallo spavento, perché non ti si accosterà.


Parola di Dio

Salmo responsoriale

Ti esalterò, Signore, perché mi hai liberato

Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato,
non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me.
Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi,
mi hai fatto rivivere
perché non scendessi nella fossa.

Cantate inni al Signore, o suoi fedeli,
della sua santità celebrate il ricordo,
perché la sua collera dura un istante,
la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera ospite è il pianto e al mattino la gioia.

Ascolta, Signore, abbi pietà di me,
Signore, vieni in mio aiuto!
Hai mutato il mio lamento in danza;
Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre.

Meditazione – ISAIA 54, 5-14


Dopo la Creazione, primo atto di salvezza, dopo la prova di Abramo, che postula l’ascolto-obbedienza della fede, dopo le grandi opere di liberazione dall’Egitto, paese di schiavitù, prosegue l’itinerario ideale tra i grandi gesti della prima Alleanza, prefigurativi della nuova ed eterna.
Siamo alla fine del vibrante Libro della Consolazione del Deutero Isaia per contemplare un’altra liberazione, un secondo esodo da un altro paese di oppressione e dispersione: “Consolate, consolate il mio popolo… è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità” (Is 40,1-2).
Appena dopo il quarto e ultimo carme del Servo, che annunzia il valore redentivo della morte del giusto innocente (53), si leva il canto di riconciliazione tra un Dio già tante volte ferito e la sua comunità già severamente respinta.
Qui il profeta si fa pathos, tocca le corde più intime perché tentando di comunicare l’esperienza di Dio non esita a scendere nel profondo della relazionalità umana. Antropomorfismo? Ma, per alludere all’appartenenza reciproca che sostanzia la relazione Dio-popolo, cosa di più significativo dell’intimità degli sposi? [1]
Qui il profeta si è rivolto a Gerusalemme come a una donna afflitta dal ripudio e rattristata doppiamente dalla consapevolezza dei suoi fallimenti. Non temere, perché non dovrai più arrossire; non vergognarti, perché non sarai più disonorata; anzi, dimenticherai la vergogna della tua giovinezza e non ricorderai più il disonore della tua vedovanza (Is 54,4).
Dio riprende l’iniziativa. I due dolori vengono annullati insieme. Il Signore per bocca del profeta riveste il suo abito di sposo, più che mai potente, ma anche redentore, garante della sorte dell’amata. “Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà. Ti edificherò di nuovo e tu sarai riedificata” (Ger. 31,3-4).
Irradiando immenso amore e affetto perenne, che a contatto della miseria umana si fanno pietà e misericordia, ripropone in dono nuziale la sua alleanza di pace. Il perdono gratuito che il Signore dona al popolo infedele è coerente alla promessa genesiaca successiva al Diluvio. Isaia attualizza le Scritture: non più punizione per il peccato di infedeltà, perché l’istinto del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza (Gen 8,21). Sì, costituiscono una coppia difficile Dio e il suo popolo. Il popolo è ribelle di natura, diffidente e incline a darsi altre sicurezze. Non sa accettare e non sa ricambiare. Ma lo Sposo è fedele per sé e per la sposa infedele. L’arcobaleno gli ricorda l’alleanza eterna, che lui solo garantisce. Ha giocato con lei a fare il risentito, ma non regge per molto il gioco. Allarga le braccia e accoglie, lui, l’accoglienza senza limiti, chi doveva aspettarsi solo il ripudio.
È il momento di grazia in cui la storia comunitaria/personale inverte la marcia. È vero, si è andati al fondo, ma si viene tirati su. Si riemerge dall’abisso della schiavitù, perché Qualcuno ci perdona, cancella il passato, dandoci ancora una volta fiducia. Ci proietta invece verso il futuro, che è ritorno alla comunione, alla presenza del volto di un Dio che si lascia ritrovare. Anzi ci “riprende”, verbo della danza amorosa che partners conflittuali vivono con alterni passi di distacco e di attrazione.
La fedeltà del Signore basta essa stessa a colmare ogni baratro umano, a compiere ogni incompiutezza. La Gerusalemme contrita e afflitta si rivedrà donare una veste luminosa. L’opacità e la pesantezza delle sue pietre si trasfigureranno nello splendore delle gemme.
Così la nuova comunità, irrimediabilmente infedele, con le cicatrici vive delle sue ferite, ma finalmente riconciliata nella carne crocifissa e gloriosa del Cristo, sarà resa pronta a ricevere dalla sua Pasqua trasfigurazione e divinizzazione: “L’Amato mio è per me e io per lui” (Ct 2,16).

Quinta lettura(20/03/2021)

V lettura della Veglia Pasquale

Dal libro del profeta Isaia 55, 1-11

Così dice il Signore: «O voi tutti assetati, venite all’acqua,
voi che non avete denaro, venite; comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte.
Perché spendete denaro per ciò che non è pane,
il vostro guadagno per ciò che non sazia?
Su, ascoltatemi e mangerete cose buone
e gusterete cibi succulenti.
Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete.
Io stabilirò per voi un’alleanza eterna,
i favori assicurati a Davide.
Ecco, l’ho costituito testimone fra i popoli,
principe e sovrano sulle nazioni.
Ecco, tu chiamerai gente che non conoscevi;
accorreranno a te nazioni che non ti conoscevano
a causa del Signore, tuo Dio, del Santo d’Israele, che ti onora.
Cercate il Signore, mentre si fa trovare,
invocatelo, mentre è vicino.
L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri;
ritorni al Signore che avrà misericordia di lui
e al nostro Dio che largamente perdona.
Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri,
le vostre vie non sono le mie vie.
Oracolo del Signore.
Quanto il cielo sovrasta la terra,
tanto le mie vie sovrastano le vostre vie,
i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.
Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo
e non vi ritornano senza avere irrigato la terra,
senza averla fecondata e fatta germogliare,
perché dia il seme a chi semina
e il pane a chi mangia,
così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca:
non ritornerà a me senza effetto,
senza aver operato ciò che desidero
e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata».


Parola di Dio

Salmo responsoriale:


Attingeremo con gioia alle sorgenti della salvezza

Ecco, Dio è la mia salvezza;
io avrò fiducia, non avrò timore,
perché mia forza e mio canto è il Signore;
egli è stato la mia salvezza.

Attingerete acqua con gioia
alle sorgenti della salvezza.
Rendete grazie al Signore e invocate il suo nome,
proclamate fra i popoli le sue opere,
fate ricordare che il suo nome è sublime.

Cantate inni al Signore,
perché ha fatto cose eccelse,
le conosca tutta la terra.
Canta ed esulta, tu che abiti in Sion,
perché grande in mezzo a te è il Santo d’Israele.

Meditazione su Isaia 55, 1-11
(di Carla Sprinzeles)

Tra il 600 e il 500 a.C. mentre il popolo d’Israele è esiliato, disprezzato e umiliato, un popolo, che ha perso tutto, perde anche la speranza, ma Dio suscita un profeta, una Voce che grida, che ricorda al suo popolo che lo stesso Dio, che “ci ha tratti dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù” può ancora liberare. Può farlo perché Lui solo è creatore, lo farà perché è fedele e ci ama più di una madre. Questo amore, non ci è imposto.
Ed ecco l’accorato invito: “O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite, comprate senza denaro, senza pagare vino e latte”. Noi abituati che nessuno ci regala niente, e anche se apparentemente ci regalano qualcosa sappiamo per esperienza che pagheremo in altro modo un prezzo molto più caro; siamo molto meravigliati di queste parole! Cos’è una favola per bambini? Ma poi pensiamo, la vita, ce la siamo data da soli? I genitori sanno descrivere tutti i procedimenti che avvengono, nonostante loro, nell’utero della mamma? E allora almeno un dono l’abbiamo ricevuto tutti gratis. Questo è un dono di ogni istante, perché con tutte le attenzioni che possiamo avere, potrebbe esserci tolto, non è in mio potere di controllo. Ecco, questo vino, latte pane, indicano l’offerta del dono della vita piena che ci è stata donata.
Ma poi in modo accorato il Signore chiede: “Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia?” Molte volte pensiamo di essere totalmente autonomi e ci illudiamo di bastare a noi stessi, senza contare tutte le altre schiavitù e dipendenze umane che accettiamo. Abbiamo in abbondanza cibi succulenti e non li vediamo neppure, andiamo a elemosinare affetto, simpatia da altri come noi! “Cercate il Signore, mentre si fa trovare” Cosa significa? Che a volte Dio si fa trovare, altre no? Non è così, Dio si fa sempre trovare.
Il profeta, che sta tornando dall’esilio di Babilonia dice che se l’uomo non è capace di entrare in sé e di conoscersi, difficilmente potrà conoscere Dio e quindi la sua ricerca di Dio diventa vana. Tutti gli uomini e donne lo potranno trovare, non solo il popolo ebreo. È un cammino quotidiano verso l’abisso che separa i pensieri dell’uomo da quelli di Dio: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie”.
Se ci mettiamo da 2 punti di vista diversi, vediamo cose diverse! Fa un esempio chiaro:” Come la pioggia o la neve scendono dal cielo e non vi ritornino senza aver irrigato la terra, fecondata, fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia; così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca.” La Parola è creatrice:” Sia la luce e la luce fu”. Il Signore è un Dio nascosto, noi siamo troppo piccoli per comprenderlo. L’unico modo di impadronirsi di Dio è quello di diventare suoi. Noi possiamo dire, pensare e credere che tutto ciò sia favoletta ma la pioggia, la neve continua a scendere, a irrigare a tornare in cielo come vapore e nuvola. La terra non potrà trattenere la pioggia; l’incredulità e l’opposizione umana non impediscono alla Parola di trionfare su ogni ostacolo e fecondare. La Parola rivela quanto Dio è premuroso, comprensivo, indulgente verso la debolezza e la fragilità delle sue creature.
Il Signore quindi ripete ad ognuno di noi: “Assetati, venite all’acqua. Cercate il Signore! Porgete l’orecchio e ascoltatemi”. Noi pur avendo bisogno di senso e di orientamento, non andiamo alla fonte autentica, ma cerchiamo altrove, senza trovarla!

Sesta lettura(27/03/2021)

VI lettura della Veglia Pasquale

Dal Libro del profeta Baruc (3,9-15.32 – 4,4)

Ascolta, Israele, i comandamenti della vita,
porgi l’orecchio per intender la prudenza.
Perché, Israele, perché ti trovi in terra nemica
e invecchi in terra straniera?
Perché ti contamini con i cadaveri
e sei annoverato fra coloro che scendono negli inferi?
Tu hai abbandonato la fonte della sapienza!
Se tu avessi camminato nei sentieri di Dio,
saresti vissuto sempre in pace.
Impara dov’è la prudenza, dov’è la forza,
dov’è l’intelligenza,
per comprendere anche dov’è la longevità e la vita,
dov’è la luce degli occhi e la pace.
Ma chi ha scoperto la sua dimora,
chi è penetrato nei suoi forzieri?
Ma colui che sa tutto, la conosce
e l’ha scrutata con l’intelligenza.
È lui che nel volger dei tempi ha stabilito la terra
e l’ha riempita d’animali; lui che invia la luce ed essa va,
che la richiama ed essa obbedisce con tremore.
Le stelle brillano dalle loro vedette e gioiscono;
egli le chiama e rispondono: «Eccoci!»
e brillano di gioia per colui che le ha create.
Egli è il nostro Dio
e nessun altro può essergli paragonato.
Egli ha scrutato tutta la via della sapienza
e ne ha fatto dono a Giacobbe suo servo,
a Israele suo diletto.
Per questo è apparsa sulla terra
e ha vissuto fra gli uomini.
Essa è il libro dei decreti di Dio,
è la legge che sussiste nei secoli;
quanti si attengono ad essa avranno la vita,
quanti l’abbandonano moriranno.
Ritorna, Giacobbe, e accoglila,
cammina allo splendore della sua luce.
Non dare ad altri la tua gloria,
né i tuoi privilegi a gente straniera.
Beati noi, o Israele,
perché ciò che piace a Dio ci è stato rivelato.


Parola di Dio

Salmo responsoriale

Signore, tu hai parole di vita eterna.

La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.

I precetti del Signore sono retti,
fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido,
illumina gli occhi.

Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.

Più preziosi dell’oro,
di molto oro fino,
più dolci del miele
e di un favo stillante.

CIO’ CHE PIACE A DIO CI È STATO RIVELATO

G. RAVASI

La supplica penitenziale, iniziata nel capitolo 1 del Libro di Baruc, giunge ora alla sua conclusione particolarmente intensa. È un’invocazione reiterata di perdono, nel riconoscimento della propria colpa. In pratica, è come se parlasse una nuova generazione, nata nella prigionia dell’esilio, pronta ormai a seguire il suo Signore nella fedeltà. Dio deve, perciò, dimenticare l’ingiustizia dei padri e rivolgersi con Amore a questa comunità, riportandola alla libertà e alla speranza. Con tale preghiera abbiamo anche una testimonianza della spiritualità dell’Israele post-esilico, del suo forte senso del peccato e della sua fiducia nel Dio Salvatore.
La seconda parte del Libro di Baruc, dopo la supplica penitenziale, è occupata da un poemetto sulla Sapienza divina (3,9-4,4). L’avvio rivela lo sforzo di collegamento con il Testo precedente, anche se è molto probabile che la composizione esistesse in modo autonomo e sia stata poi inserita in questo punto del Libro. Infatti, si riconosce che la rovina di Israele, ridotto a essere quasi come una nazione estinta, è da attribuire all’aver «abbandonato la fonte della sapienza» (v. 12). La fedeltà alla Parola divina è la sorgente della pace e della prosperità. Fatto questo collegamento, l’Inno prosegue secondo uno sviluppo e temi che abbiamo già incontrato nei Libri sapienziali, in particolare in Proverbi 8, Giobbe 28, Siracide 1 e 24.
Siamo, quindi, in presenza della ricerca della Sapienza, chiamata anche Prudenza e Intelligenza. Essa, però, non è acquistata né dal potere politico, che può dominare genti e animali ma non riesce a ottenere la saggezza con la forza, né dal potere economico, che si illude di possederla versando oro e argento, né dal potere tecnico, che lavora metalli con abilità ma non può evitare di finire nella tomba. Neppure le giovani generazioni – in altri termini, il progresso dell’umanità – riescono a possedere la Sapienza, come non l’hanno neanche coloro che sono tradizionalmente considerati come i campioni della saggezza, cioè i popoli di Canaan e di Teman, gli Ismaeliti («figli di Agar») e i mercanti della tribù araba di Merra. Il Poeta si rivolge, allora, con enfasi, a Israele e lo invita a contemplare il Tempio cosmico che Dio ha eretto nella Creazione. Nell’interno di questo colossale Edificio è evocata innanzitutto la presenza dei nepilim, «i giganti». Si allude a una pagina dal sapore mitico della Genesi (6,1-4), ove erano di scena questi esseri simili a semidei: essi, pur nella loro grandezza e forza, non furono capaci di scoprire la saggezza e precipitarono nel peccato e nella morte. La Sapienza risulta, dunque, invalicabile non solo agli uomini, ma anche agli esseri superiori, rivelandosi esclusiva prerogativa divina.
La Sapienza divina è misteriosa: attraverso due domande retoriche, che riprendono quella iniziale di 3,15 («Chi ha scoperto il suo luogo e chi è penetrato nei suoi tesori?»), si ricorda che Essa è irraggiungibile dalla pura ricerca umana. Essa, infatti, è esclusivo appannaggio del Creatore, di «colui che sa tutto», che ha dato origine all’intero Universo. Dio ha popolato la Terra di esseri viventi, usa la luce come se fosse un suo messaggero, pronto ai suoi ordini, convoca le stelle come fossero sentinelle ed esse subito obbediscono, gridano: «Eccoci!». Ebbene, questo Signore unico ed esclusivo della Sapienza, ne ha fatto dono a «Giacobbe suo servo», al popolo ebraico «suo prediletto». Per Grazia, dunque, Israele possiede la Sapienza che ora abita in mezzo agli uomini: la lettura cristiana di 3,38 – ove si dichiara appunto questa presenza della Sapienza sulla Terra – ha visto in questo passo una testimonianza dell’Incarnazione, cioè di Gesù Cristo, Sapienza divina rivelata all’umanità (vedi 1 Cor. 1,30 e Gv. 1,14).
Per il nostro Autore, invece, la Sapienza divina è presente in mezzo a noi attraverso il Libro biblico della Legge, donata al Sinai da JHWH, il Signore, a Israele. Si ha la ripresa di un tema già incontrato nel capitolo 24 del Siracide. La «gloria» del popolo ebraico è la Torah, cioè la Legge divina, rivelazione della Sapienza del Signore. È questo il grande tesoro, ricevuto per Grazia, alla cui luce si deve camminare. Chi l’accoglie, trova in Essa la sorgente della vita e della gioia. Il canto della Sapienza si chiude in 4,4 con una beatitudine rivolta a Israele, perché a lui «è stato rivelato ciò che piace a Dio».